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Smart Working: le best practices ai tempi del coronavirus

Smart Working: le best practices ai tempi del coronavirus

Smart Working: sì o no? L’emergenza coronavirus costringe a ripensare molte pratiche aziendali, tra cui una delle più discusse negli ultimi anni: la presenza fisica del dipendente in ufficio è sempre e comunque indispensabile? Oppure alcune attività possono essere svolte tranquillamente da casa?

La maggior parte delle aziende di servizi, fra cui quelli digitali, si sono ritrovate – quasi da un giorno all’altro – costrette a dare una risposta a queste domande. Il lavoro da casa è ormai, per la maggior parte, quasi un obbligo di legge. Ed è importante non farsi trovare impreparati di fronte a una sfida spesso evocata, ma più difficilmente analizzata. Quest’ultimo punto è quello che proveremo ad affrontare qui, al di là degli aspetti “ideologici” sul fatto che lo Smart Working sia “buono” o “cattivo”.

Partiamo, quindi, dai numeri: l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, nel 2019, ha stilato un report che studia tipologie e diffusione del lavoro da casa. Il primo dato che risalta agli occhi è l’aumento degli smart worker in Italia: dai 480mila del 2018 ai 570mila di fine 2019: un balzo in avanti del 20 percento. Tra le piccole e medie imprese, il tasso di adozione dello Smart Working è salito dall’8 al 12 percento, mentre nelle grandi imprese l’incremento è più contenuto: dal 56 al 58 percento.

Due le principali criticità rilevate: la resistenza da parte di molti datori di lavoro (il 50 percento sul totale degli intervistati) e il timore per la sicurezza dei dati (fattore evocato dal 31 percento del campione). D’altra parte, oltre alle perplessità “classiche” sull’effettiva produttività di un dipendente all’interno delle mura casalinghe, si associano quelle relative alla privacy, visto che i dipendenti si collegano alle reti aziendali tramite pc personali che – in teoria – non sono sottoposti ad alcun controllo.

In campo aziendale si sente spesso parlare di “ricette per il successo”. Pur non volendo trasformarci in chef del mondo digital, è possibile individuare alcune best practices per applicare al meglio i principi dello Smart Working, ora che non si può fare altrimenti? È lo stesso Osservatorio del Politecnico di Milano che ci fornisce delle risposte interessanti.

Anzitutto il cartellino virtuale. I ricercatori dell’Osservatorio hanno messo in luce come alcune aziende che hanno implementato lo Smart Working in modo efficace, hanno contestualmente attivato una web app che permette di operare una serie di “timbrature virtuali” a ogni dipendente, per segnalare l’inizio e la fine delle loro attività lavorative quotidiane. Un’altra buona pratica, quella dell’Employer Branding, proviene dalla pubblica amministrazione ed è stata attuata nel corso del 2019 dalla Regione Emilia Romagna. In cosa consiste l’Employer Branding? Lo smart worker diventa egli stesso un “testimonial” dell’azienda, tramite la dotazione di un pc portatile, smartphone, cuffie e zaino, tutti brandizzati col logo della Regione Emilia Romagna.

Attività che, ovviamente, passano per un’adeguata campagna di formazione; quasi una “fidelizzazione” del dipendente nei confronti dell’azienda. Una realtà in cui sentirsi protagonisti tramite concetti quali fiducia, perseguimento degli obiettivi, leadership, responsabilità individuale e collettiva. Sentirsi, in definitiva, professionisti a tutti gli effetti e non semplici meccanismi intercambiabili dell’ingranaggio.

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